Impariamo a parlare ascoltando, eppure dimentichiamo che l’ascolto è l’anima della comunicazione. La Pentecoste ci insegna che il vero miracolo non è solo “dire”, ma “comprendere”. Come Chiesa siamo chiamati ad ascoltare ancora prima di predicare.
(DOMENICA 8 giugno 2025 – PENTECOSTE)
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
(dagli Atti degli Apostoli 2,1-11)
Come ho imparato la mia lingua madre? Non ricordo quando ho pronunciato le prime parole o detto la mia prima frase di senso compiuto. Mi sono ritrovato a parlare sia l’italiano sia il mio dialetto veneto, e solo in seguito ho iniziato a comprenderne le regole, poi a leggere e scrivere. Anche se parlo italiano, spesso si capisce da dove vengo: il mio accento tradisce le mie origini. Ho imparato semplicemente ascoltando e imitando chi mi parlava o parlava attorno a me.
I genitori si sorprendono quando i figli tornano dai primi giorni di scuola materna con parole nuove — a volte anche qualche parolaccia. È lì che le hanno sentite e fatte proprie, anche se magari non ne conoscono bene il significato.
E allora, qual è il modo migliore per imparare a parlare correttamente una lingua straniera? Ascoltare molto. Il metodo scolastico tradizionale parte dallo studio della grammatica e delle regole. Se questo approccio è inevitabile per le lingue antiche come il greco o il latino, per quelle moderne il metodo più efficace è un altro: partire dall’ascolto, immersi in un contesto di vita quotidiana. Trascorrere del tempo nel Paese in cui si parla la lingua che si vuole imparare è sicuramente la via più diretta ed efficace.
Leggendo il racconto della Pentecoste, quando gli apostoli, per un dono straordinario, iniziano a comunicare in tutte le lingue del mondo, ho sempre pensato solo alla loro capacità di parlare e farsi capire. In fondo è ciò che scrive l’evangelista Luca: “… ciascuno di noi li sente parlare nella propria lingua nativa”. Ma forse non è proprio così.
Qual è, il vero dono dello Spirito Santo, descritto in questo racconto come vento impetuoso e lingue di fuoco? I racconti biblici, soprattutto nel Nuovo Testamento, sono sintetici e simbolici: in poche righe condensano eventi lunghi e complessi. Luca ci parla dello Spirito che spinge con forza i discepoli fuori dal cenacolo, verso il mondo, rappresentato da una lunghissima lista di popoli — molti a noi oggi quasi sconosciuti. È l’inizio del moto missionario della Chiesa, che nasce con Gesù e continua ancora oggi: un movimento di ascolto, inculturazione e comunicazione.
Anche Gesù, per dono dello Spirito, entra nella storia umana e per trent’anni vive un tempo silenzioso, nascosto. Come se tutto quel tempo prima della sua missione pubblica fosse un tempo di ascolto: ascolto della lingua, delle tradizioni, dei gesti umani. Gesù ha saputo parlare di Dio con linguaggio umano perché per lungo tempo ha imparato il linguaggio umano.
È questo il metodo anche della Chiesa, che segue le orme del suo Maestro. Dal giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo spinge i cristiani a entrare nella storia, ad ascoltare profondamente il cuore dell’umanità: i suoi pensieri, i suoi cambiamenti, le sue gioie, sofferenze e speranze. Solo un ascolto autentico dei linguaggi umani permette una comunicazione che arrivi al cuore e non resti in superficie.
Il dono dello Spirito ci rende capaci di ascoltare davvero il prossimo, superando pregiudizi e fretta, per comprenderlo e — alla fine — amarlo.
Forse, come Chiesa, abbiamo spesso mancato la nostra missione quando ci siamo preoccupati più di predicare e imporre regole che di ascoltare il mondo. Non parlo solo di parole nel senso stretto, anche perché oggi con la tecnologia una traduzione letterale può arrivare più veloce del vento dello Spirito Santo. Le parole giuste, quelle che toccano il cuore, sono legate alla vita dei popoli, fatte di gesti, riti, storie: vanno ascoltate, assorbite, capite.
Ed è questo ascolto profondo, che ci permette di entrare nel linguaggio dell’altro e comunicare veramente, che si chiama amore.
L’amore che diventa ascolto e comprensione è il dono dello Spirito Santo che cambia il mondo e fa sentire ogni persona accolta da Dio.